Non c’è niente di più noioso che divertirsi.
Per parafrasare Alceste Santacroce – o per interpretarlo, forse: non c’è niente di più ridicolo che comportarsi seriamente. Oppure, per proseguire sulla falsariga di questa interpretazione, osserviamo che non vi è nulla di più futile di ciò che è fondamentale; che non vi è alcuna cosa più superficiale della ponderatezza.
Ma, in un gioco di specchi riflessi, o meglio di prismi che rifrangono il confuso indistinto della luce nelle sue componenti cromatiche restituendone la realtà sottostante, nulla è più serio di ciò che è ridicolo, niente più fondamentale della futilità assoluta. E la ponderatezza massima è la più totale superficialità.
È dunque una maschera l’impalpabile nulla delle inutili vite che infestano la vuota apparenza di una Roma talmente evanescente, sbracata e mignotta da esporre come un trofeo il deserto emotivo e morale di cui si (de)compone la sua contemporaneità. O ancora meglio: è un prisma che maneggiato a dovere rivela le crudezze della realtà sottostante alla vaporosa cortina fumogena di cui il racconto la ammanta e si ammanta.
Eternity è lo studio minuzioso, analitico, spietato di una società che pare affannarsi per smarrire definitivamente le proprie coordinate perdute, più che per ritrovarle o sostituirle con nuovi riferimenti. Una società che vuole disperatamente obliare quello che non riesce (ancora?) a dimenticare e che riaffiora come materia d’incubo. È lo sguardo minuzioso, analitico e spietato di Alceste, che nel più completo (apparente?) disincanto tutto osserva, categorizza, disseziona attraverso le maglie fittissime di un’intelligenza distaccata (in apparenza) dalla vita quotidiana e di una coscienza iperpresente alla realtà degli eventi quotidiani.
Tra le sue pagine pare di scorgere talvolta qualche appiglio per uscire da questa atmosfera di temuta, desiderata, idiotamente divertita attesa della fine; attesa di perdersi, sciogliersi in una assenza di senso. Appiglio che come appare di scorgere, immediatamente pare volatilizzarsi; e che, eppure, sappiamo dover esserci. Lo sappiamo perché ce lo mostra Alceste stesso, nascondendocelo – e nascondendoselo – appena lo scorgiamo: perché l’apparenza è tutto; la maschera è la sostanza della realtà. Ma appunto: una realtà concreta, priva di orpelli e finzioni, una realtà dura osserva da dietro la maschera noi che osserviamo la cortina fumogena con cui Alceste si schermisce travisando quella realtà. Che sia reale l’appiglio con il quale Alceste gioca a nascondino con sé stesso e con noi, ce lo dice Alessandro Bilotta in separata sede, nell’introduzione del secondo volume, laddove sottolinea la centralità esistenziale del pettegolezzo, che non a caso è infatti la “sostanza” attorno alla quale ruotano le esistenze dei personaggi in maschera di Eternity; e di come l’osservazione, certo invadente, delle vite altrui ci permetta di sbrogliare il senso delle nostre. Dunque, l’ennesimo gioco a rimpiattino per (s)mascherare il proprio camuffamento da parte di questo svagato flâneur che, civettando tra nichilismo e intellettualismo vuole nasconderci – o finge di voler nascondere – uno degli ultimi veri umanisti di questo disgraziato paese.
Eternity è insomma l’ennesima straordinaria storia che nasce dalla penna di Alessandro Bilotta, magnificamente visualizzata sin qui da Sergio Gerasi, Matteo Mosca e Francesco Ripoli, che nella diversità degli stili hanno saputo creare la sintesi superiore di un’atmosfera che attraversa i tre episodi.