Forse il più grande piacere per un lettore è veder disattese le proprie peggiori aspettative; e dunque Morte in sedici noni, il dittico dylandoghiano pubblicato negli albi nn.444-45 a opera di Roberto Recchioni e Corrado Roi, è un vero regalo, tanto inaspettato quanto gradito.
L’autore non deroga alla sua cifra stilistica più profonda, confezionando un racconto tutto basato su un frenetico ritmo “emotivo” della narrazione, sul pedale della provocazione tenuto sempre schiacciato, sulla rarefazione del testo narrativo in favore di uno più espressionista e referenziale e sull’evocazione di segmenti culturali e sociali decisamente eccentrici rispetto al mainstream bonelliano (qui, il variegato mondo bondage/BDSM, con evidenti sconfinamenti in una patinatissima estetica porno). Grazie anche alla perfetta comunione di intenti e risultato tra la sua sceneggiatura e i disegni di un Roi il cui godimento – anzi la cui voluttà – nell’aver trasposto visivamente il racconto è palese nella raffinatezza espressiva e nello splendore morboso e oscuro delle tavole, a partire dal ritmo ipnotico e lisergico al contempo che imprime il formato appunto in 16:9, Recchioni si libera tuttavia di gran parte di quei difetti che per solito rinchiudono il suo indubbio talento di sceneggiatore nella leziosità e pedanteria di costrutti metanarrativi che restano fini a sé stessi e di dialoghi ripetitivamente ammiccanti al lettore, finendo per riempire i suoi racconti solo di questo, svuotandoli della storia da narrare.
Motore centrale del racconto è il meccanismo della creatività artistica visto come prosciugatore dell’energia vitale dell’individuo, letteralmente fatto incarnare nella figura di un’aliena antichissima che infesta il pianeta da molti milioni di anni prima dell’apparizione della nostra specie, e che “vampirizzando” le emozioni di donne e uomini si procura i “materiali” per la propria arte, che è il suo mezzo di trasporto attraverso il tempo e lo spazio (l’implausibilità della cosa non ha la minima importanza nell’economia di una storia che procede per simboli). La figura del vampiro di emozioni è ben radicata nella cultura popolare, nella sola saga di Star Trek mi vengono in mente tre episodi incentrati variamente sull’argomento, di cui uno, The Muse, tra i più intensi della serie di Deep Space Nine, presenta lo stesso argomento di questo episodio doppio di Dylan Dog: il rapporto tra ispirazione e creatività artistica da una parte, e febbrile consumo della vitalità e della vita stessa dall’altra. Recchioni e Roi fanno tuttavia di Lucille un personaggio pienamente autonomo, il ritratto di una personalità narcisista e psicopatica del tutto disfunzionale e paradossalmente incapace di rapportarsi agli altri (all’Altro). Paradossalmente ma anche naturalmente: il narcisista psicopatico è un parassita delle emozioni altrui, un vampiro; ma proprio come un vampiro o un altro parassita non sono capaci di vita autonoma, così Lucille è incapace di emozioni autonome.
Sarà proprio su questa caratteristica dell’aliena che Dylan farà leva per risolvere la situazione apparentemente irresolubile nella quale ella – e l’autore con lei – lo caccia. Posto al bivio tra scegliere lui stesso chi portare a Lucille perché l’aliena se ne serva come animale da macello o lasciare che ella scelga in prima persona a caso le sue vittime (scegliere tra la feccia dell’umanità o gli innocenti, come gli dice Lucille torturandolo), Dylan Dog compirà l’unica scelta in linea con il suo carattere e modo d’essere più costitutivi, offrendosi a Lucille come vittima lui stesso, praticamente facendosi figura cristica. L’offerta di tutto sé stesso, di tutte le sue emozioni più profonde, e soprattutto l’offerta di quella pressoché infinita capacità di provare compassione verso chiunque e verso qualunque emozione fosse anche la più sordida, inumana, orrenda, comporterà un sovraccarico fatale nella personalità psicopatica di Lucille e nella sua alessitimia. Una conclusione narrativamente sbrigativa e apparentemente bizzarra, perfino ingenua e incoerente: in fondo sembra assurdo che in decine, centinaia di migliaia di anni di contatti con l’umanità Lucille non avesse incontrato mai un altro Dylan Dog. Tuttavia nei racconti simbolici quel che conta è il significato dell’azione, non l’azione manifesta; e qui può forse esservi un simbolismo ingenuo, ma rappresentato con una primitiva visionarietà esuberante che lo arricchisce ben oltre la sua semplicità e, agli occhi dei cinici, banalità: amor omnia vincit. L’amore vince su tutto: è l’amore incondizionato, forse fanciullesco, di cui si fa veicolo fisico Dylan nel più puro rispetto del suo personaggio profondo. Credo sia la migliore interpretazione che ne abbia mai dato Roberto Recchioni, la sua storia migliore (forse non solo di Dylan Dog); una storia che è tanto essenziale nel suo fine e nelle sue basi quanto barocca e ridondante nei suoi orpelli, il cui compenetrarsi le conferisce la prospettiva finale che la rimbalza tra complessità e semplicità. Questo non vuol dire che certi difetti connaturati nello stile dell’autore, su richiamati, siano assenti; ma come accennato, il racconto ne appare sciolto, o più precisamente l’autore sembra aver esercitato un controllo sul materiale narrativo tale da nasconderli a una lettura che si abbandoni al piacere del racconto.
Come già detto, si rivela fondamentale l’apporto dei disegni di Corrado Roi, e altrettanto fondamentale la capacità di Recchioni di aver letteralmente cucito la sceneggiatura addosso al disegnatore. Quel che sortisce da questo amalgama, che sembra un’equazione matematica più che una lega chimica, è un’esperienza visiva e sensoriale abbastanza rara nel fumetto, e sicuramente quasi unica in quello bonelliano. Il disegno assume una sinuosità, una deformabilità, una consistenza viscida che veicolano un senso di malessere alla lettura, grazie al quale al lettore sembra di toccare con mano la morbosità soffocante della storia e la sua malata forza di seduzione.
Da lettore, spero di poter continuare a leggere racconti come questo.