Nathan Never #9: Gli occhi di uno sconosciuto

Inevitabilmente, gli occhi di uno sconosciuto

Quando a febbraio 1992 Gli occhi di uno sconosciuto esce in edicola, Stefano Casini è ancora un disegnatore in fase di “allestimento” come mostra il suo tratto, non sempre sicuro e preciso, e quel volto geometrico ed elementare di Nathan; è già però un animale da fumetto fatto e finito, pare sapere d’istinto cosa rende efficace il disegno e come coinvolgere emotivamente il lettore. Per contro Michele Medda ha compiuto da poco ventinove anni, ma ha già al suo attivo, scritte a solo o con i sodali Bepi Vigna e Antonio Serra, storie per Martin Mystère, Dylan Dog, Nick Raider, oltre ovviamente alla creazione assieme agli altri due sodali della prima testata di fantascienza della SBE; ed è un animale da fumetto non meno fatto e finito che sa toccare le corde profonde del lettore, in punta di stiletto o con un colpo diretto a seconda delle circostanze.

La Città Est delle prime storie della testata è un luogo bladerunneriano, ma qui Casini pare farne una stretta parente della Londra di Casertano in Memorie dall’invisibile; pare quasi di sentire in lontananza Tiziano Sclavi redarguirlo energicamente: “Atmosfera, Casini, atmosfera!”. La verità è più semplicemente che quelle plumbee, umide atmosfere piovose, variamente evocanti malinconia, rimpianto, tiepido o brutale disfacimento, degrado materiale e morale, sono del tutto congeniali allo stile di scrittura e alle tematiche più abituali di Medda, al suo intimismo in punta di calamo sempre pronto a farsi veleno.

Nathan Never era da poco stato il primo passo di un Sergio Bonelli, chissà quanto convinto, nei territori della science fiction. Creato da tre autori che, per quanto potessero essere in sintonia, avevano chiaramente stili, interessi, punti di riferimento dissimili, talvolta irriducibili, e idee sul personaggio variegate – e che finiranno per divergere non poco, evolvendo in una testata spesse volte schizofrenica agli occhi del lettore – Nathan Never presenta da subito un amplissimo ventaglio di fonti di ispirazione che, ciascuno con la propria sensibilità, i tre autori sapranno rielaborare in termini personali e coerenti con la tradizione bonelliana, ma con forti tratti di autonomia, mantenendo per un lungo tempo un livello qualitativo invidiabile, fin quando l’emergere sempre più netto delle differenze artistiche e i diversi percorsi di vita imboccati risulteranno in quella schizofrenia di cui sopra e in allontanamenti, più o meno lunghi e più o meno definitivi, dell’uno o dell’altro dal personaggio.

Il pervasivo clima noir, tratto distintivo della scrittura di Medda, trova in questo albo un precoce climax e allo stesso tempo un manifesto: inevitabilmente, Gli occhi di uno sconosciuto è stata citata, a lungo e di frequente, come la storia migliore del personaggio e del suo autore; e a distanza di più di trent’anni potrebbe perfino essere ancora così. Il racconto è caratterizzato da un’asciuttezza di scrittura che ne esalta atmosfere e scorrevolezza, mettendo al contempo in risalto il sentire e le azioni di protagonisti e comprimari; la trama resta così defilata mentre i personaggi crescono di pagina in pagina. Come è suo uso, Michele Medda utilizza lo strumento principe delle didascalie per creare quell’ambientazione a metà tra il giallo hard boiled e più decadenti sensazioni noir: taglienti, eleganti, ironiche o ciniche, insieme a dialoghi talvolta del tutto naturali ma più spesso divertiti e accattivanti, conducono il lettore dentro i meandri e gli angoli bui di una storia la cui cifra stilistica ed esistenziale è il blue, l’umore malinconico. Scrivere di sentimenti senza (s)cadere nella retorica o peggio nella melensaggine non è facile, e tanto meno lo è maneggiare letterariamente la solitudine, l’incapacità di comunicare, il rimpianto per lo scivolare monotono della vita, la tristezza, la depressione, la disperazione. Mai rinunciando a mostrarli in evidenza, Medda descrive sentimenti e stati d’animo dei personaggi senza andare sopra le righe, affidandosi al disegno di Casini, che li fa recitare alla perfezione grazie alla plastica mobilità di volti e corpi, per renderli autentici e fare partecipe il lettore di ciò che provano.

Filo conduttore del racconto è la solitudine, che avvolge e uniforma tutti i personaggi: le vittime e l’assassino, il detective e la cliente. Solitudine che non trova scappatoie e men che meno soluzioni: stesa come una seconda pelle addosso ai protagonisti ne permea le parole, ne segna i volti, ne infesta lo sguardo come il fantasma della loro coscienza. Una solitudine che si materializza, solida e concreta negli occhi di quei protagonisti; quegli occhi così espressivi, esagerati perfino, che Casini fa letteralmente “parlare” mentre in sottofondo le didascalie ne fanno il controcanto; che declinano la solitudine ora nella paura, ora nel rimpianto, e ancora nella rabbia per antiche ferite, nel sentimento di estraneità al mondo, agli altri, a sé stessi: nel rammarico per vite che sfuggono di mano o nell’indifferenza che quella vita che sfugge finisce per trasformare nella vita stessa dei personaggi, come si legge nello sguardo finale di Lucy.

Soprattutto, sono infatti occhi che la solitudine spegne: gli occhi vuoti dello sconosciuto, Manny, l’assassino, il cui sguardo Nathan incrocia mentre il telepate sta per lanciarsi da un cornicione, lo stesso sguardo che l’Agente Alfa aveva veduto negli occhi del criminale Bant Murtaugh che moriva, arreso alla vita, spacciato dai proiettili esplosi dalla moglie. Sui volti e negli occhi di ciascuno degli attori principali della storia il lettore ne legge facilmente la vita, ma tra loro i protagonisti restano indecifrabili l’un l’altro. Occhi inconoscibili di sconosciuti.

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