Chiedimi cosa erano le trasferte di Zagor

Premessa

Le periodiche trasferte di Zagor lontano da Darkwood, per cicli più o meno lunghi di episodi tra loro collegati, sono una parte essenziale della tradizione avventurosa dello Spirito con la Scure.

Eppure, nella settima centuria ormai agli sgoccioli la loro durata è stata limitata al minimo indispensabile. Abbiamo avuto così una trasferta sulle sponde del Pacifico iniziata in tre balenotteri consecutivi del fuoriserie “Maxi”, pur di risparmiare nove mesi di lontananza da Darkwood sulla serie regolare, nella quale è stato ospitato il solo quarto e conclusivo episodio. C’è poi stato un viaggio di Zagor in Europa per affrontare Rakosi: quattro numeri ambientati sul Vecchio continente, mentre il mese successivo Zagor è di nuovo a Darkwood, e infila il dito nella piaga raccontandoci di avere attraversato l’Italia del nord prima di re-imbarcarsi per il Nuovo Mondo, vivendo avventure a noi rimaste ignote. Ma proprio sul finale della centuria uno scampolo dei vecchi viaggi si è riassaporato con la trilogia dei Caraibi: una trasferta-lampo, limitata a sette albi della serie regolare, ma la cui brillantezza mi ha permesso di farmi passare il prurito alle dita che avevo da un po’ su questo argomento.

Come si è arrivati alla bocciatura di trasferte più lunghe sulla testata madre? Lo ha spiegato in più occasioni il curatore della serie, Moreno Burattini, dallo spazio “A domanda Moreno risponde” ospitato nel blog di Marco Corbetta, noto divulgatore zagoriano. Ne riporto alcuni estratti:

  • “Discutendone in Casa editrice, abbiamo tutti concordato sul fatto che sono finiti i tempi in cui si poteva esser certi della fedeltà del pubblico anche di fronte a trasferte fuori da Darkwood che duravano anni. Oggi, meglio attenersi al rassicurante scenario di casa, quello che tutti i lettori amano e che meglio identificano il personaggio. Quindi, viva la tradizione. Se faremo dei viaggi, e li faremo, d’ora in poi saranno brevi” (dalla puntata 33, domanda 6) ;
  • “È parere condiviso da noi in redazione che allontanare per un lungo periodo Zagor dagli scenari che gli sono consueti sia guardato con fastidio dalla parte più tradizionalista dei lettori, che mal digeriscono ogni uscita fuori dal seminato. Una volta le trasferte attiravano nuovi lettori, oggi sembra proprio che allontanino quelli che abbiamo” (dalla puntata 36, domanda 14) ;
  • “Si tratta […] di rendersi conto di come il tempo di fruizione di qualunque prodotto multimediale sembra essere sempre più limitato. Tutto viene consumato velocemente, il mercato premia le pubblicazioni più agili, i testi da leggere meglio se sono più corti, altrimenti annoiano. […] Se facessimo ripartire Zagor per una trasferta fuori da Darkwood di due anni e mezzo ci sarebbe chi si spaventerebbe” (dalla puntata puntata 51, domanda 2) .

In sintesi: le trasferte lunghe oggi fanno perdere lettori, a differenza di quello che capitava in passato, perché l’attuale lettore medio di Zagor è un tradizionalista che si spaventa per tutto quello che non lo è.

Ora, con questo intervento non intendo entrare nel merito delle considerazioni sulle pubblicazioni più agili premiate dal mercato perché, come diceva il filosofo, “so di non sapere”, né contestare il curatore di Zagor, che conosce bene l’importanza che le trasferte hanno avuto nella serie e si è meritoriamente ingegnato per fare in modo che non sparissero del tutto (vedi la citata operazione “Maxi” o le porte aperte a recuperi retrospettivi delle avventure europee non raccontate). Voglio invece esprimere e argomentare il forte senso di rammarico (e anche di incredulità) che i concetti sopra citati mi suscitano, cercando di proporre una visione alternativa che “assolva” le trasferte.

E inizio da quello che questi viaggi periodici hanno rappresentato nell’immaginario dei lettori.

Le grandi trasferte di Zagor
Zagor 88

Per età, non ho vissuto in diretta la “Golden Age” della serie, vale a dire il ciclo di storie comprese tra i n.85 e n.138, tutte firmate da Guido Nolitta. Albi che, tra il 1972 e il 1977, hanno scolpito lo Zagor rimasto nella memoria collettiva, come testimonia la classifica delle storie più amate dagli addetti ai lavori raccolta da uBC Fumetti, e che si aprivano con un viaggio di Zagor e Cico, ribattezzato “Odissea americana” (come il titolo di un albo dalla copertina diventata iconica), durato quasi due anni di vita editoriale. Non so quindi cosa provarono i lettori dell’epoca che, in una totale assenza di notizie (a quei tempi non esistevano rubriche postali né altri canali di comunicazione ufficiali da parte della casa editrice), di mese in mese vedevano i due pard viaggiare per scenari inediti, ma il fatto che quelle avventure siano rimaste nei cuori di più generazioni penso parli da solo. Personalmente ho “divorato” quegli episodi nel decennio successivo, e le mie due storie preferite in assoluto di Zagor provengono proprio dalla “Golden Age”: una ambientata a Darkwood, l’altra in luoghi esotici tra bandiere nere e tesori perduti nell’oceano.

Ricordo invece benissimo in che situazione si trovava Zagor quando ho iniziato a leggerlo nella seconda metà degli anni ’80 e la serie aveva perso la capacità di sognare in grande, con gli episodi che si succedevano tutti scollegati tra di loro e tematiche spesso ripetitive. Trovavo deludenti le risposte che Sergio Bonelli, dalla neonata rubrica postale, dava ai lettori che proponevano nuovi viaggi di Zagor in terre lontane. Il concetto era che in passato c’erano state eccezioni (seguiva puntuale citazione di una storia della Golden Age) e che, dato che Darkwood è un luogo fantastico, Zagor poteva vedersi recapitare comodamente a domicilio qualsiasi elemento esotico fosse necessario. Ho rivalutato nel tempo molti degli episodi pubblicati in quegli anni, ma la sensazione che si vivesse alla giornata e senza un progetto narrativo, con storie che faticavano a superare i due albi e l’insostenibile confronto con le epiche storie della Golden Age, era molto forte.

Quando poi la serie, all’inizio degli anni ’90, dovette affrontare un importante ricambio degli autori, accolsi con gioia le parole di Sergio Bonelli nella rubrica del n.315, che si concludeva così: “la parola d’ordine è: per rinnovare Zagor, si torna alle origini! Abbiamo in progetto classiche storie di viaggi, mistero, supernemici […] e soprattutto tanta avventura”.

Quel ciclo sarebbe iniziato nell’aprile 1994, con l’albo probabilmente il più importante del “dopo Nolitta” per significato simbolico: “L’esploratore scomparso”, il n.345, capitolo introduttivo di un’epica storia finalmente lunga, puntualmente ai vertici tra quelle più apprezzate non scritte da Nolitta. Il ciclo sarebbe durato fino al n.435, dell’ottobre 2001: 91 albi, oltre la metà dei quali con Zagor e Cico lontani da Darkwood e le storie di mera “routine” ridotte al minimo essenziale per rifiatare tra un viaggio, un ritorno epocale di un supernemico, un’altra trasferta e così via.

Ma torniamo al principio di quei sette anni di rilancio della serie.

Zagor 345

L’esploratore scomparso” apriva la “seconda odissea americana”, e lo faceva con un’altra copertina che sarebbe diventata iconica, con Zagor e Cico in cammino ed alle loro spalle la cartina del Nord America. Due anni e mezzo ininterrotti di viaggi, terminati con il n.375, che hanno dato alla serie una fondamentale linfa creativa per i decenni successivi.

Tra le carte vincenti di questa lunga trasferta e di quelle più corte che l’hanno seguita ci fu il bilanciamento tra tradizione e novità. In quegli anni fu appassionante, mese dopo mese, seguire Zagor e Cico nei loro viaggi in posti inconsueti, vederli ritrovare vecchi amici caduti nel dimenticatoio, confrontarsi con tematiche inedite ed incontrare nuovi alleati ed antagonisti che avrebbero dato vita a vere e proprie mini-saghe interne alla serie. Entrate e uscite si susseguivano senza sosta, e così se un nuovo ed inconsueto avversario come Nat Murdo, il primo villain introdotto con “L’esploratore scomparso”, aveva ormai detto tutto e salutato i lettori dalla Scozia, qualche mese dopo a New York esordiva Mortimer, con il tempo diventato il solo nemico post-nolittiano a reggere il confronto dei soliti Hellingen, Kandrax e Rakosi.

Soprattutto, un ciclo di storie così ampio e le sue conseguenze negli anni successivi mostravano con chiarezza che finalmente c’erano una visione di lungo periodo e idee precise sulla direzione verso cui spingere la serie. In quel periodo era anche entusiasmante, infatti, vedere affacciarsi di tanto in tanto la continuity, con collegamenti tra gli episodi e l’intrecciarsi delle trame, un elemento in genere trascurato dalla serie. Non si trattava tuttavia di una continuity troppo invadente perché, come da tradizione zagoriana, la trama principale di ogni episodio aveva il proprio finale compiuto.

Le tappe salienti di una trasferta erano puntualmente salutate da una puntata memorabile della rubrica postale o dal “Giornale di Sergio Bonelli”, la coloratissima, divulgativa ed illustrata appendice agli albi con le principali novità in cantiere della casa editrice. Era un momento magico persino l’arrivo dello Speciale di Zagor, oggi la più anonima tra le tante testate fuoriserie intitolate allo Spirito con la Scure, ma che all’epoca era una signora pubblicazione, e che in quarta di copertina ripresentava quell’immagine iconica de “L’esploratore scomparso” con i nostri eroi in cammino, una sintesi di quello che sarebbe capitato a Zagor e Cico nei mesi successivi e l’eloquente titolo “Destinazione: avventura!”, mentre in terza di copertina si susseguivano ulteriori anteprime degli episodi in arrivo.

Per i più giovani è certamente difficile comprendere il fascino che si provava ai tempi con queste anteprime ospitate direttamente negli albi. Quella volta erano le uniche possibilità di avere informazioni su quello che bolliva in pentola, a meno di seguire le fanzine o di avventurarsi, ai primordi della rete, nei preistorici siti di informazione curati da appassionati (come fece anche uBC fumetti con le sue anteprime). Da tempo una mini-rivista “contenitore” come il “Giornale di Sergio Bonelli” è stata sacrificata dalla modernità perché, con l’avvento di Internet e dei Social e la rivoluzione delle relazioni umane che hanno comportato, le “regole del gioco” sono cambiate. La stessa casa editrice di Zagor si è adeguata, ed ogni giorno dai propri dispositivi tecnologici si possono seguire le notizie sui propri personaggi, si può interagire a distanza con gli autori e si è esposti a un “diluvio” di anteprime da più fronti. Tutto è diventato più veloce e frammentato.

Siamo così arrivati al punto nodale, perché una delle più gettonate contro-argomentazioni che si può sventolare in faccia a chiunque, come il sottoscritto, dia l’impressione di provare nostalgia per un passato irripetibile, è che “i tempi sono cambiati”.

Difficile ribattere a questo. E per molti versi è vero. Ma questo significa che in questi tempi moderni non ci sia più spazio per trasferte di Zagor più lunghe di sette mesi, perché ormai la soglia di attenzione dei lettori è così bassa che in tanti si spaventerebbero, non riconoscendo più il personaggio?

Sono profondamente convinto che la risposta sia “no”.

L’inizio dei problemi

Ma quand’è che le trasferte di Zagor sono diventate brutte, sporche e cattive? Con ogni probabilità dopo la saga sudamericana, che nella seconda metà della sesta centuria ha tenuto Zagor e Cico lontani da Darkwood per poco più di tre anni della serie regolare, e il cui andamento commerciale deve essersi rivelato deludente.

Ma siamo sicuri che il flop sia stato provocato dalla trasferta in sé e non piuttosto da alcuni elementi che l’hanno differenziata da quelle che l’avevano preceduta?

In primo luogo, nella saga sudamericana è stata adottata una continuity più invasiva di una volta. Nelle trasferte che conquistavano nuovi lettori non c’era un vero filo conduttore tra i vari episodi, se non una successione temporale logica che faceva sì che dove terminava uno spesso ripartiva l’altro, mentre la continuity serviva a fare da trampolino di lancio per future avventure che sfruttavano aspetti secondari delle vicende in cui erano state introdotte. Si pensi a “Vendetta Vudu” (n.366-367), che aveva un finale compiuto nella sua trama principale ma che aprì la strada alle storie del Kraken prima (n.386-388) e di Jean Lafitte poi (n.417-419), che a loro volta inaugurarono due distinte mini trasferte.

Con la trasferta sudamericana le cose sono cambiate, e proprio l’avere creato un filo conduttore, in ossequio ai moderni ritmi narrativi di altri media, come le serie televisive, potrebbe avere giocato un brutto scherzo.

Il ciclo sudamericano è stato infatti ben presto etichettabile come quello finale di Atlantide (un tema introdotto negli anni a spizzichi e bocconi per poi subire una decisa accelerata con una minitrasferta tra il 2004 e il 2005), perché il pretesto narrativo di tutto il viaggio di Zagor è l’inseguimento di una persona che ha la pericolosissima possibilità di impossessarsi delle armi del continente perduto. La prima e l’ultima storia della trasferta sono praticamente un tutt’uno, con in mezzo tre anni di “pausa” in cui Zagor ha vissuto altre avventure, alcune di stampo atlantideo, altre no, a volte incrociando la pista della persona inseguita per poi perderla subito dopo e affrontare una nuova situazione. Il pretesto narrativo che fornisse una motivazione logica del viaggio di Zagor fino all’Antartide è così diventata una trama orizzontale per anni della testata madre, un elemento del tutto nuovo per la serie.

Per onestà intellettuale devo ammettere che inizialmente avevo applaudito alla cosa, per poi ricredermi (con l’indubbio vantaggio del “senno di poi”) di fronte al risultato finale. In molti episodi la continuity è infatti diventata un corpo estraneo alla vicenda principale, se non addirittura un elemento a tratti incongruente, con Zagor e Cico che sembrano perdere tempo di fronte allo scopo del loro viaggio. In una storia di poco precedente alla trasferta si era poi scoperto che il viaggio in Sudamerica era stato profetizzato a Zagor ancora prima di diventare lo Spirito con la Scure. Una cosa potenzialmente enorme: cosa poteva esserci di così importante nel destino del nostro eroe? Ebbene, tale predestinazione si è limitata allo schiacciare il pulsante di autodistruzione dell’ultima base di Atlantide, e Zagor era il solo a poterlo individuare perché conosceva, a sua insaputa, la lingua degli antichi abitanti del continente perduto: l’esigenza di creare attesa per l’imminente ciclo in continuity è pertanto diventata una opinabile interferenza “esterna” da parte degli autori, non realmente necessaria data la pochezza che ne è risultata ai fini della trama, ma che ha “sporcato” il finale della saga e le origini dell’eroe.

Quindi, a mio avviso il vero punto debole della trasferta sudamericana è stato l’inserimento di una trama orizzontale per troppo tempo, con tutti i rischi di “concentrazione” che questo comporta. La sfortuna ha infatti voluto che tale trait d’union fosse poco apprezzato da una frangia non irrilevante di lettori, che la reputavano più adatta a Martin Mystère che a Zagor. Personalmente non concordo con questa critica, ma resta il fatto che questa invadente continuity monotematica per giustificare il lungo viaggio di Zagor è un elemento di differenza con la seconda odissea americana.

Un altro aspetto da sottolineare è la perdita, nel viaggio sudamericano, di quel bilanciamento tra tradizione e novità che aveva caratterizzato quelli precedenti. Il ciclo non ha infatti dato vita a nuovi personaggi né a elementi che abbiano arricchito la serie, e nessuna delle sue storie ha avuto sviluppi nel corso della settima centuria di Zagor. Questo lungo viaggio è stato il “summa” di tutte le precedenti avventure sui continenti scomparsi, ma anche la conclusione declinante di una parte delle novità che avevano caratterizzato il rilancio degli anni ‘90. Quindi, a mio avviso è stata la progettualità stessa di questa trasferta a decretarne lo scarso gradimento.

E qui arriviamo al punto più spiacevole da sottolineare.

L’odissea americana fu scritta dal solo Guido Nolitta, e in quegli anni non esistevano pubblicazioni fuoriserie. La seconda odissea e le successive mini-trasferte furono escogitate dai soli Mauro Boselli e Moreno Burattini, con un più piccolo (in termini quantitativi) contributo iniziale di Maurizio Colombo. Non servivano troppi autori in più per mandare in edicola Zagor ogni mese, anche perché durante il magico settennato 1994-2001 le storie extra erano molte meno di quelle che, a partire dal nuovo secolo, hanno iniziato l’inarrestabile ascesa che le avrebbero portate a “doppiare” la serie regolare per pagine inedite, richiedendo giocoforza un aumento degli sceneggiatori coinvolti.

L’odissea sudamericana, uscita tra il 2011 e il 2014, è stata così sceneggiata da otto autori differenti.

Dove voglio arrivare? Al punto che i cicli più avvincenti vedevano coinvolti pochi autori, dalle idee chiare e ben dentro i meccanismi della serie, anche perché esistevano poche testate fuoriserie a cui pensare. Più autori invece equivalgono a più stili narrativi, più modi di affrontare il personaggio, perché ogni autore ha la propria sensibilità o il proprio stile: è brutto da dire, ma non tutti “sentono” un personaggio allo stesso modo, e inflazionarlo con troppe storie difficilmente ne aumenterà la qualità media. Inevitabilmente saranno concepiti anche episodi non realmente necessari o che sembrano scritti col pilota automatico, perché ci sono tante storie da mandare in edicola, da qualche anno ulteriormente “esplose” per numero con quelle brevi, che rischiano di “bruciare” ulteriori spunti. Difficilmente si tornerà indietro su questi aspetti, finché lo “zoccolo duro” dei lettori non si stancherà di questa sovrapproduzione. Il contraltare di questa situazione è che è anche diventato più facile “migrare” da una testata all’altra e scegliere cosa leggere, se qualcosa nella serie regolare o di un autore non aggrada, come è capitato con il ciclo sudamericano. Del resto, abbiamo visto in taluni casi le storie pensate per un extra finire sulla serie regolare e viceversa, perché di fatto sono diventate intercambiabili e indistinguibili.

Davvero sarebbe possibile concepire oggi una lunga trasferta di qualità all’altezza di quelle passate, a fronte di questa situazione?

La trasferta caraibica
Zagor 694

A tagliare la testa al toro sul rapporto inverso tra apprezzamento delle trasferte e numero degli autori coinvolti può provvedere l’appena conclusa trasferta ai Caraibi, accolta da un favore generale anche in quei Social che spesso sono terra di conquista delle solite lamentele sui bei vecchi tempi che non ci sono più. Una trasferta lampo, si diceva, che ha fatto riscoprire una parte piccola ma significativa del fascino dei cicli più lunghi a cui si è scelto di rinunciare. E che è stata, guarda caso, sceneggiata da un solo autore: Jacopo Rauch, che dopo la “consacrazione” del n.600 si è affermato, e per distacco, come il migliore autore zagoriano della settima centuria per quantità e qualità delle storie firmate.

La prima storia (“La leggenda di Manetola”, n.693-696) è purtroppo la sola a concedersi un certo spazio, occupando quasi metà della trasferta, anche perché raccoglie la sfida di fare tornare Zagor e Cico nei luoghi di uno dei “testi sacri” nolittiani, a cui si accosta con grande rispetto per il racconto originale: quel “Libertà o morte” (n.89-92) in cui il popolo dei Seminoles, guidato da Manetola (grande amico di Zagor) andava incontro a un tragico destino sull’isola di Britannia, l’epilogo più sofferto di una storia di Zagor e per il nostro eroe un’esperienza drammatica probabilmente seconda soltanto alla morte dei genitori. Il pretesto è dato dalla comparsa di Chaka, sedicente figlio del condottiero che, a sua volta, ha imbracciato le armi per spingere i Seminoles alla rivolta, ma il cui vero obiettivo è tornare sull’isola per liberare gli ultimi superstiti della tribù di Manetola. La storia si prende tutto il suo tempo per introdurre i vari elementi, in perfetto stile nolittiano, dando così spazio ai dubbi di Zagor sulla propria missione, al suo senso di colpa per essere sopravvissuto all’amico Manetola e al confronto e scontro generazionale con Chaka, a cui darà un’importante lezione di leadership. Ma non solo: c’è anche la grande amicizia che lega Zagor a Cico, e quanto il pancione sia una presenza imprescindibile della serie al fianco del protagonista, capace non solo di strappare un sorriso per tenere alto il morale della squadra ma anche di veri atti di eroismo, salvando a modo suo la situazione quando tutto sembra perduto.

L’entrata in scena del Capitano Nemo (Zagor 697)

Se la prima storia della trilogia trae la sua forza da una visione complementare dei grandi classici della serie e dallo scavare a fondo nell’essenza dei due grandi amici Zagor e Cico, la seconda (“L’isola degli spettri”, n.696-698) rilancia la capacità della testata di trovare nuovi spunti narrativi nel tempo, facendola in questo caso attingere alla grande tradizione avventurosa letteraria. Zagor incontra così il Capitano Nemo (!), proprio quello originale di Jules Verne, che si rivela una figura perfettamente a suo agio con le caratteristiche della serie. Il tutto avviene grazie alle macroscopiche incongruenze cronologiche contenute nei due celebri romanzi di Verne, che consentono di presentare un tormentato Nemo all’inizio della sua avventura per i sette mari a bordo del Nautilus, compatibile con quello che ne “L’isola Misteriosa” (romanzo ambientato negli anni della guerra civile americana, vale a dire circa tre decenni dopo l’epoca delle storie di Zagor) era un uomo anziano. Un “difetto” della storia è che è troppo breve (due albi appena): l’episodio rappresenta infatti l’atto iniziale di una trilogia, sparpagliata nel tempo e scritta da autori differenti, e non propone pertanto una trama particolarmente epica o grandiosa. Resta comunque una storia godibile: la parte che precede la scoperta del Nautilus, con la crescente suspense che accompagna gli eventi misteriosi che si succedono, è zagoriana sino al midollo e anche l’incontro e lo scontro di vedute dei “due straordinari personaggi”, come recita una bella didascalia, non tradisce le attese. Da sottolineare infatti, in questa trasferta caraibica, il felice utilizzo di quei riquadri narrativi caduti in disuso ma che, insieme ai disegni, possono produrre un risultato combinato superiore alle singole parti… anche in questi tempi di veloce fruizione dei contenuti.

Zagor 698

Nel terzo episodio della trilogia (“La Maledizione degli Incas”, n.698-699) la lunghezza scende sotto i due albi, comunque densi di avvenimenti e in cui l’esotismo dell’avventura aumenta grazie a una caccia a un tesoro maledetto.

E se si parla di tesori non può mancare Digging Bill, il più avventuroso e ricorrente dei buffi comprimari nolittiani (anche nelle grandi trasferte passate), che con Cico dà vita a gustosi battibecchi, ma in generale tutti i protagonisti buoni, cattivi ed ambigui (come quella simpatica canaglia dell’ex-pirata John Connor, a cui sarò sempre affezionato per avere propiziato il magnifico ciclo africano) sono egregiamente calati nella propria parte.

Tra i plus dell’episodio vanno segnalati anche la circolarità tra incipit ed epilogo, che richiamano tutto il fascino, anche macabro, dell’epopea della filibusta.

Conclusioni

Dispiace constatare che, nella standardizzazione che caratterizza la lunghezza delle numerose storie di Zagor mandate in edicola, ne siano state programmate alcune ad ampio respiro che avevano contenuti molto meno stimolanti della seconda e terza storia dei Caraibi. Ed è un peccato, se si considera che le storie dei Seminoles e quella in Europa hanno dimostrato quanto Rauch sia capace di concepire trame complesse ed appassionanti. Davvero si può pensare che, se le vicende del Capitano Nemo e di Digging Bill avessero avuto a disposizione uno spazio maggiore per dare vita ad avventure epiche, i lettori si sarebbero spaventati, stante la qualità e la brillantezza della narrazione che le ha contraddistinte?

In una settima centuria caratterizzata da storie frammentate come non si verificava più dagli anni ’80 è però curioso notare quanto l’invadenza della continuity, che a mio avviso ha rappresentato il principale difetto del ciclo sudamericano, abbia mutato pelle e sia sopravvissuta in una nuova forma: la serializzazione di un’idea. Abbiamo così avuto storie introduttive di nuovi personaggi “minori” tuttora irrisolti (si pensi alla Cacciatrice o al guerriero che vuole vendicare la strage commessa in gioventù dal futuro Zagor), la bizzarra sottotrama “rosa” di Jenny terminata in tragedia, lo stesso inserimento del Capitano Nemo in vista di più avventure scaglionate. Per non parlare dei ritorni di supernemici come Hellingen, Kandrax e lo stesso Rakosi, ciascuno dei quali è stato affrontato da Zagor più volte nel giro di pochi anni, poiché la prima storia presentava un finale evidentemente sospeso.

Sono elementi a mio avviso stonati per una serie che ha fatto sognare generazioni di lettori con storie grandiose ed indipendenti, e su cui invece si continua ad insistere con più episodi frammentati e idee dilazionate nel tempo. Alla fine però a pagare sono state solo le trasferte più lunghe.

O magari sono io ad essere soltanto un nostalgico e i tempi si sono fatti troppo veloci, la soglia di attenzione di chi legge è ai minimi storici e gli zagoriani sono dei tradizionalisti che vogliono che il loro eroe non si allontani troppo da Darkwood.

Per fortuna ci sono ancora cicli come la trilogia caraibica, seppure ridotti all’osso, che ci ricordano il fascino delle vecchie trasferte in più episodi collegati tra loro. Avventure appaganti da leggere, senza elementi di disturbo né interferenze esterne, ma che a causa delle limitazioni non hanno potuto sviluppare appieno tutte le loro potenzialità. “Vorrei, ma non posso”.

Forse i tempi sono davvero cambiati, ma per chi ha avuto la fortuna di provare “in diretta” le emozioni delle grandi trasferte passate, si sono fatti anche più tristi e, narrativamente parlando, più poveri.

[Tutte le immagini sono (c) Sergio Bonelli Editore]

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