La Casa della Fame di Dambudzo Marechera, 1978

Forse il modo migliore per scegliere un libro è inciamparvi

Sono inciampato due volte in “La casa della fame“: una prima quattro anni fa su uno scaffale laterale di una piccola libreria, dove, colpito dall’asciuttezza essenziale della copertina, da quanto descritto nei risvolti, e dall’essere per me terra del tutto incognita l’autore, lo scelsi convintamente; una seconda ieri, dopo aver girato un paio d’ore a vuoto per casa, cercando qualcosa da leggere che si abbinasse all’umore del giorno, e, quando già mi stavo rassegnando all’ennesima ricerca a vuoto, imbattendomi nella macchia nera della sua copertina in un angolo cieco del comodino, dove era finito dimenticato. Scelta definitiva, questa volta.

Le vite “sprecate” posseggono un fortissimo potere attrattivo, tanto più se sprecate lo sono soltanto per colui o colei che della propria vita fa “spreco”. La biografia di Dambudzo Marechera che si ricava dalle fonti in rete e ancor più da questo libro e dalle note finali dell’autore, consegna la figura di un uomo fuori dal comune, che sicuramente ha fatto spreco della vita, ma al contempo ha messo a disposizione di chiunque ne legga l’opera un talento letterario cristallino e una capacità di fornire testimonianza di vigore inusitato. Testimonianza su tempi, luoghi e vite che sono sì circoscritti dalla contingenza – lo Zimbabwe, anzi la Rhodesia come allora si chiamava, dei ghetti neri tra gli anni ’50 e ’70 – ma che si fanno facilmente testimonianza di ogni luogo e tempo dove donne e uomini soffrano a causa di loro simili e dove la sofferenza non paia avere fine o speranza di soluzione. Non che l’universalità fosse necessariamente l’obiettivo di Marechera, ma il talento di un autore, di un artista, si misura anche nel suo andare oltre le contingenze in tutta naturalezza, per la forza descrittiva e impressiva della sua arte, in questo caso della sua scrittura.
Nel risvolto di copertina Doris Lessing afferma che leggere “La casa della fame” è come “ascoltare un grido”; è un’affermazione corretta, ma anche molto riduttiva. Questa novella – l’edizione italiana è limitata alla sola novella che nell’originale era invece accompagnata da alcuni brevi racconti – è un urlo stridente; una continua teoria di urla stridenti e contundenti; una stratificazione infinita di urla stridenti, contundenti, laceranti. Una novella infinita, densa, aggrovigliata; un labirinto di cunicoli verbali e visivi, di iterazioni e digressioni; una successione anarchica di salti temporali e logici; il gioco di continue sliding doors tra realtà più incredibili di sogni allucinati e fantasie allucinatorie più vere di una qualsiasi realtà.
La pagina di Marechera è, letteralmente, materia magmatica: dal ghetto e dalla vita dello Zimbabwe/Rhodesia filtrati attraverso sue parole emerge la frenesia disperata, eppure paradossalmente priva di disperazione, della vita che brulica ai margini. Ai margini, semplicemente: ai margini di qualunque cosa, perché si tratta di vita e vite marginali di cui a nessuno importa alcunché, vita e vite spendibili, sacrificabili, cancellabili con un gesto noncurante. Una vita e vite che non hanno tempo e forza per disperarsi, troppo occupate a ingegnarsi a trovare un modo per sopravvivere, in genere a spese di un proprio simile.
Marechera non si piange mai addosso: impreca, bestemmia, è sarcastico, spara parole che usa come lime abrasive sulla coscienza del lettore; ma non piange mai: è troppo occupato a sopravvivere (per il tempo che gli riuscirà) nel suo modo. E così scrive, vomita fuori tutto quello che ha visto, udito, provato, vissuto in quegli anni e quei luoghi che trasfigura in pagine di un barocchismo scenico abbacinante dove realtà, fantasia, sogno e allucinazione si rincorrono e fondono insieme, trasformandosi nel racconto senza pietà dell’esistenza, più che di una esistenza specifica, più che della vita dell’autore. Autore che non scrive nella sua lingua madre indigena ma in quell’inglese che è la lingua del padrone coloniale che in qualche maniera egli ritorce contro quei padroni (nelle note finali del libro, una volta di più su questo aspetto, Marechera è del tutto consapevole di ogni sfaccettatura dei fenomeni di cui parla e della sua situazione esistenziale, si dimostra intellettuale autentico). La traduzione italiana fa perdere senza dubbio qualcosa, probabilmente molto, nella lettura; tuttavia si avverte intatto l’impeto esplosivo, iterativo, infinito della strabordante ricchezza del vocabolario utilizzato dall’autore, che egli getta addosso al lettore con ardore; si vive il flusso irruente, vulcanico, degli aggettivi letteralmente eruttati, usati come “pugni visivi” da imprimere nella corteccia del lettore.

È una scrittura violentemente visuale, disturbantemente sensoriale: “fame”; “torcibudella”; “insetti” di imprecisata e sgradevole natura. Sono mantra ossessivi più e prima che parole portatrici di un significato preciso. Sono evocazioni di un clima spirituale prima che descrizioni. Sono l’urlo senza termine di un racconto che si dilata oltre la sua fine, restando dentro l’anima di chi legge. E poi botte, botte, botte – e violenze di ogni genere. E sopra ogni altra cosa: macchie. A partire dalla macchia nera della copertina, quasi una porta su una dimensione di completo oscuramento dell’anima. Macchie di ogni possibile fluido ed escrezione corporei, macchie che sono le urla che intervallano le urla del racconto.

Con tutto il suo carico di violenza, di rabbia, di autentico furore, questa novella, chanson de geste e bildungsroman allo stesso tempo, lirica selvaggia e pamphlet politico contemporaneamente, trasmette tutta la disperazione e la vitalità di una terra derubata, di donne e uomini espropriati delle loro esistenze. Eppure, come dicevo, il racconto di Marechera è disperato almeno quanto non lo è. Perché in qualche modo è oltre la disperazione: come detto nella Casa della Fame non vi è neppure tempo per disperarsi. Ma anche perché il narratore, così esplosivo nel rivestire di fantasia la scabra realtà narrata, è altrettanto sincero nel suo narrare. Sincero perché interamente consapevole di chi egli sia, dove sia vissuto, di chi fossero coloro che formavano il suo ambiente, la sua famiglia, la società. Consapevole della realtà della sua Rhodesia/Zimbabwe. Nelle sue parole, dirette, lucide e sarcastiche, perché “i bianchi sono merda”. E “i neri sono merda”.

Una consapevolezza lucida fino allo spreco della propria vita.

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