Give the family my love di A.T. Greenblatt, 2019

Give the family my love, pubblicato online lo scorso anno sul Clakrkesworld Magazine, ha vinto il Premio Nebula 2020 per il miglior racconto breve; non ho letto (ancora) gli altri racconti che erano candidati, ma il vincitore è sicuramente degno della vittoria.

L’autrice, Aliza T. Greenblatt, era stata candidata nella stessa categoria anche l’anno scorso, piazzandosi seconda. Mi era sconosciuta del tutto prima che capitassi sulla pagina Wikipedia del premio e decidessi di cercare in rete il racconto; né il suo sito personale né la sua scarna pagina Wiki riportano dati anagrafici, ma a giudicare dalla sua foto il giovane ingegnere deve essere poco sopra i trent’anni, e, a giudicare dal poco di questo racconto, le premesse per un bel futuro letterario sono dalla sua parte.

Come quasi sempre è per la migliore fantascienza, il nucleo duro dell’opera ruota attorno agli esseri umani: alle interazioni tra loro; alle loro reazioni agli eventi esterni – naturali -, e interni – psicologici ed emotivi -; all’analisi della nostra società attraverso l’analisi e la descrizione della loro società futura (come è in questo caso) o passata, oppure ancora alternativa. Nell’economia di un breve racconto come è questo, Greenblatt riesce a rendere con grandi realismo e vividezza la complessità interiore della sua protagonista, Hazel Smith: la giovane antropologa emerge in tutta la sua difficoltosa, aspra umanità; nelle ritrosie e nelle paure come negli slanci, e nel travagliatissimo affetto che la lega al fratello, che progressivamente si rivela nel loro “dialogico” monologo alla distanza temporale di sei mesi e spaziale di trentadue anni e mezzo luce. E dopo il lavorio maieutico del monologo/dialogo a distanza siderale, Hazel si offre completamente al lettore nel serrato e doloroso confronto, nel finale del racconto, con la dottoressa Ryu, la cui personalità “immagazzinata” dagli Archivisti è tuttavia in grado di interagire con altri esseri senzienti. Hazel finisce così per mostrarci le motivazioni più profonde, non necessariamente nascoste, ma che sicuramente non vengono sbandierate, che spingono l’essere umano a vivere, che lo spingono ad agire, che lo portano a saggiare e valicare i propri limiti, o viceversa a rinchiudervisi. In Hazel vediamo lo spettro delle nostre emozioni e delle paure, ma sperimentiamo anche il valore essenziale della speranza – a dispetto magari della concretezza del realismo: riconosciamo che senza la risorsa intima della speranza l’essere umano, al più, trascina la propria esistenza fisica. Tanto intima che, come Hazel, potremmo rifiutarla razionalmente, quasi “subendola” invece.

Se il nucleo umano e umanistico del racconto è tanto essenziale quanto efficace – ed efficace perché possiede la nitidezza dell’essenzialità – la sovrastruttura più propriamente fantascientifica di Give the family my love si rivela invece efficace per la visionarietà d’immaginazione profusavi. L’incombente, perfino immanente disastro ecologico del pianeta Terra è ipotesi di partenza ormai scolastica e perfino noiosa; tuttavia, pur compressa nella brevità del racconto, la storia contiene appunto una notevole inventiva. Senza rappresentare una particolare novità, l’architettura narrativa definita dal contatto con alieni quasi imperscrutabili è magnificamente raccontata da Greenblatt: viene strutturata da un ambiente planetario alieno e ostile, dalle dimensioni fisicamente ineffabili della Biblioteca, e altrettanto ineffabili razionalmente dei suoi ambienti e spiritualmente delle figure degli Archivisti, così come dalla ciclopica vastità delle conoscenze da essi archiviate – tutta la soverchiante esperienza vissuta da Hazel colpisce a ondate il lettore, affascinandolo. Con abilità, l’autrice evoca il senso di stupore dinnanzi allo sconosciuto e all’inconoscibile; suscita il thrill della serrata indagine alla ricerca del Graal (ogni ricerca della soluzione di un problema insormontabile è di per sé ricerca del Graal); fa rivivere in chiave contemporanea, post-moderna, la figura dell’eroe, centrale nella space-opera di un secolo fa come in ogni racconto che abbia nel DNA i geni dell’Odissea. Dà corpo, insomma, al sense of wonder.

È raccontando con uno stile colloquiale ma vivido e linguisticamente ricco, infine, che Greenblatt in qualche modo decostruisce il suo ineffabile, permettendo che qualcosa ne trapeli progressivamente. Permettendo, in tal modo, che il lettore mutui da Hazel qualcosa del percorso che la conduce a padroneggiare l’ambiente alieno in misura sufficiente a portare a termine la sua missione, Greenblatt avvicina l’eroe all’uomo comune. Mostra il comune uomo che è l’eroe.

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